Come ci si può sentire liberi in una società tradizionalista e apparentemente reazionaria e rivoluzionaria, che detta la libertà prima ancora che si impari a nominarla, dai modi di dire alle mansioni, dai ruoli familiari alle abitudini, dal mutaforma del linguaggio che ci attraversa come un marchio culturale?
In Italia, questo nostro Paese che si dice essere ateo e progressista, ancora tanto immerso in un cristianesimo che non ha bisogno di essere creduto per essere agito, un credo che non muore ma cambia pelle, da obbligo a fiducia, da fiducia a generazione, da generazione a convenzione, fino a diventare costume, rito, superstizione linguistica, e soprattutto, purtroppo, sistema.
È curioso come si entri a teatro con l’illusione di assistere a una storia altrui, una vicenda lontana, una rappresentazione di altri, mentre invece Emma Dante ci butta rapidamente, dal niente, dal vuoto della scena di un teatro, dentro una realtà casalinga che somiglia alla nostra più di quanto pensavamo, o meglio, più di quanto vorremmo. L’angelo del focolare è la messa in scena di quel meccanismo millimetrico, ripetuto, inconsapevole che chiamiamo normalità.
Già nella conferenza del 10 novembre al Chiostro Nina Vinchi del Piccolo Teatro di Milano, insieme a Emma Dante e agli attori risuonava questo concetto: la violenza non arriva come un fulmine, non è un gesto improvviso, bensì quotidiano, che si ripete fino a diventare struttura, 'normalità'. Siamo immersi in un tempo indefinibile, perché non è né davvero presente né unicamente passato, ma è un tempo sospeso in cui la tradizione che si ripete tanto a lungo da diventare una seconda pelle, una grammatica invisibile che usiamo senza sapere si usarla, che subiamo senza sapere di subirla.
Nello spettacolo di Emma Dante, con in scena David Leone, Giuditta Perriera, Ivano Picciallo e Leonarda Saffi, tutto ciò si incarna senza bisogno di essere nominato, con un linguaggio in cui anche il più stretto grammelot siciliano è comprensivo all’Italiano del profondo nord, perché vive nei corpi, nei loro e quindi nostri modi di occupare lo spazio, nelle ripetizioni di gesti in una quotidianità domestica che è il vero focolare, non il luogo del calore, del luogo sicuro, ma al contrario dell’abitudine che brucia e scalda contemporaneamente. Emma Dante definisce questo perenne ciclo di piccoli atti apparentemente innocui, quasi amorevoli, di cura e attenzione dell’altro con l’espressione di manutenzione della violenza: ognuno di questi atti custodisce il germe di un qualcosa che si tramanda inconsciamente all’altro, di generazione in generazione. Si nasce dentro quel ciclo, ci si cresce, lo si impara senza capirlo, lo si trasmette senza volerlo.
Siamo tutti figli di un tempo molto più lontano che pensiamo, che detta atteggiamenti e comportamenti specifici, spesso inconsapevoli, rendendoci, attraverso tali azioni, chi siamo. Il padre di famiglia, interpretato da Ivano Picciallo, non è un mostro; la sua violenza non nasce dal nulla, non è gratuita né senza precedenti: è frutto di una società che gli ha imposto da sempre valori tali da schiacciare la ragione, l’ascolto, la cura. Il padre attraverso la violenza fisico-verbale cerca di nascondere e non far trasparire la sua grande fragilità e paura di perdere il ruolo che gli è stato dato a sua volta dal padre, e dal padre del padre. Il controllo diviene centrale all’interno delle dinamiche della famiglia in scena: ognuno agisce per non perdere il proprio controllo, dove per il padre la forza è controllo, per la madre il controllo è il restare, nonostante. La madre invece, nella sua forza, è imprigionata in una fragilità: una donna che ama, caduta nell’illusione che l’amore corrisposto è quello che merita, e quindi per amore sopporta l’uomo che la prima volta le ha mostrato la sua forza. Da lì, la trappola, in cui il sentimento diventa abitudine, l’abitudine diventa regola, la regola diventa oppressione, e l’oppressione chiude il cerchio.
Lo spettacolo si rivela necessario, oggi, più che mai, non solo per il teatro, per un pubblico pagante, ma per chi si ritrova in tale cerchio: le dinamiche di sopraffazione non sono semplici eventi, bensì correnti sotterranee. La violenza non è un climax bensì una spirale, una ripetizione senza tempo: un gesto che si ripete perché è stato già ripetuto, il silenzio generazionale che diventa più violento di un urlo, perché va avanti da tempo. Da donna a donna, da uomo a uomo, da genitore a figlio, la casa diviene un luogo sacro e brutale, dove non c’è consapevolezza, distinzione tra imposizione e amore.
A muovere ognuno di loro – e ognuno di noi – non sono tanto i gesti, le parole, le dinamiche o i silenzi, quanto ciò che li precede: la paura. La paura di non riuscire, di cadere, di mostrarsi fragili, di restare soli, di non essere visti, di non dimostrare abbastanza, di non essere abbastanza; la paura di non essere capiti, di non essere amati, talvolta ancor più della paura di non saper amare. È la paura che deforma la percezione dell’altro e, insieme, quella che abbiamo di noi stessi. È la paura che orienta le nostre azioni contro le sue, e le sue contro le nostre: la paura di un uomo che risponde alla paura di una donna, che a sua volta reagisce alla paura di un uomo, e così all’infinito, in un rimbalzo continuo che non lascia scampo, finché qualcosa – ma cosa? – non accade, e rompe l’equilibrio apparente.
La casa diventa allora il luogo in cui, per paura e per amore, per sofferenza e per bisogno, ci si stringe così forte da ferirsi. È il teatro di un legame che si consuma in un abbraccio che non protegge più, ma stringe fino a far male: l’amore che soffoca, la sofferenza che si aggrappa, l’orrore di un circolo vizioso che non si spezza.
In questo spazio domestico gli oggetti diventano il centro pulsante del rituale: lo stesso coltello con cui si è preparato il cibo per la famiglia, il ferro da stiro che ha spianato montagne di panni, la scopa che ha tolto polvere dal pavimento, il panno che ha ripulito lo sporco, il tavolo intorno al quale si è mangiato insieme, il camino che ha scaldato gli inverni, il frigorifero, il forno. Tutto ciò che è stato strumento di cura e di quotidiana dedizione può improvvisamente trasformarsi in potenziale minaccia, in arma di difesa o di tortura, in mezzo per zittire, per interrompere, per distruggere definitivamente quel meccanismo che non smette di ripetersi. E il paradosso più crudele è che proprio la donna, che di quegli oggetti si è servita per accudire, può ritrovarsi a esserne schiacciata.
Ciò che vediamo non è un’altra famiglia, ma la nostra, famiglia frutto di una cultura molto più grande di noi: è la cultura in cui siamo cresciuti, quel Sud che diventa nord, centro, ovunque, perché le dinamiche non appartengono a un territorio ma a un sistema.
L’angelo del focolare quindi, non è un angelo che protegge, ma che osserva e non interviene, in un luogo-sacro: è la donna che si consuma nel tentativo di tenere insieme i pezzi di un uomo che teme di frantumarsi; è l’uomo che si consuma nel tentativo di apparire integro; è il figlio che osserva e impara; è la nonna, la tradizione, che lavora come un filo invisibile. Nessuno è davvero libero, ma la libertà è recitata.
Rendere visibile ciò che è sempre stato troppo visibile per essere davvero visto.
Come il sangue di una madre che si porta dietro senza più sentirne il peso, come le lacrime di una donna che passano inosservate, troppe volte.
Questo fa il teatro.
Questo fa Emma Dante con questo racconto.
La Locandina
L’angelo del focolare
PRIMA ASSOLUTA
testo, regia, scene e costumi Emma Dante
luci Cristian Zucaro
con David Leone, Giuditta Perriera, Ivano Picciallo, Leonarda Saffi
coordinamento e distribuzione Aldo Miguel Grompone, Roma
organizzazione Daniela Gusmano
coproduzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Châteauvallon-Liberté, scène nationale, Les Célestins, Théâtre de Lyon, La Comédie de Clermont-Ferrand, Scène Nationale d’ALBI-Tarn, Le Cratère, Scène nationale Alès, L’Estive, scène nationale de Foix et de l’Ariège, Théâtre + Cinéma Scène nationale Grand Narbonne, Théâtre de l’Archipel, scène nationale de Perpignan, Théâtre Molière, Sète scène nationale archipel de Thau, Le Parvis, scène nationale Tarbes-Pyrénées, Compagnia Sud Costa Occidentale, Carnezzeria
Lo spettacolo contiene linguaggio esplicito e scene di violenza
Durante lo spettacolo sono utilizzate luci stroboscopiche
Le recite del 15, 16, 22, 23, 29 e 30 novembre sono sovratitolate in inglese e in italiano
I sovratitoli sono a cura di Prescott Studio
Durata: 65 minuti senza intervallo
- Articolo a cura di Margot Océane
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L'angelo del focolare
L'atroce ritualità di una violenza culturale