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Il santo bevitore
La leggenda, il baratro, il debito: un uomo che inciampa nella grazia
   04 Dic 2025   |     Redazione   |     Margot Boccia   |     permalink   |      commenti
Come ci si può sentire innocenti in una società che ha già scritto la colpa prima ancora che impariamo a chiamarla? Una società che assegna debiti morali come si assegnano nomi di battesimo, che pretende il cambiamento come riscatto, che misura la dignità sulle capacità di uscirne, di rimettersi in sesto, come se la fragilità non fosse una condizione ma un errore da correggere. In questa società, profondamente intrisa di un cristianesimo che non ha bisogno di fede per agire, il peccato sopravvive come linguaggio, come postura, come automatismo ereditato: si tramanda non nelle chiese, ma nei modi di chiedere scusa, nel sentirsi sempre di troppo, nelle promesse fatte per dovere, nei debiti mai sanati.


Al Teatro Filodrammatici di Milano, dal 28 al 30 Novembre in scena troviamo Il Santo Bevitore</strong>, tratto dall’omonimo testo di Joseph Roth pubblicato nel 1939. Convinti di assistere alla storia di un altro uomo, un lontano vagabondo della Parigi del ’34, con la regia di Giuseppe Amato e la drammaturgia firmata insieme a Chiara Benedetti, siamo rapidamente trasportati dentro un’altra verità: Andreas Kartak, il santo bevitore, può essere un frammento di ciò che siamo, o di ciò che temiamo di diventare. Un uomo che si specchia dopo tempo e si spaventa, perché rivedersi è sempre un rischio: potremmo non piacerci, potremmo vivere nella convinzione che la nostra immagine sia uguale a quella che ricordiamo rispetto all’ultima volta che ci siamo guardati.

Lo spettacolo non ricostruisce la Parigi dei ponti sulla Senna: la sposta, piuttosto, in un night club anni ’80, uno spazio indefinito in cui il sacro e il profano si toccano quasi, al limite tra i due universi. È un luogo degradato, pulsante di fumo, musica e attese: un altare rovesciato in cui il miracolo non scende dall’alto, ma si insinua di lato, come un’ombra.

In questo ambiente sospeso, Andreas è davvero santo e davvero bevitore: incarna tale contraddizione apparentemente impossibile da accostare. La sua santità non ha aureole, la sua ebbrezza non ha giustificazioni. È un’umanità rotta che tenta di restare fedele a una promessa impossibile: restituire duecento franchi a Santa Teresa. Soldi che non ha chiesto, che riceve senza merito, che sono più del suo necessario, che diventano per lui un messaggio, un marchio: la prova che qualcuno ha creduto in lui più di quanto lui creda in se stesso.

Andreas non è tormentato da ciò che ha fatto, ma da ciò che non riesce a fare. Ogni volta che tenta di restituire il debito, la vita lo devia: un incontro, una tentazione, un bisogno primario. E allora il voto non è un gesto religioso, ma una condanna esistenziale: ricordarsi continuamente di non essere all’altezza, seppur ripetendo continuamente "sono uomo di parola". La sua è una colpa che non punisce, bensì trattiene: si eredita e la si porta avanti, chissà fin quando, fin dove.

Lo spazio si stravolge continuamente, e con poco ci spostiamo dal night a una nuova casa borghese, al buio notturno di una città insicura e violenta, al cortile di una chiesa, al night, e così conosciamo le molteplici realtà con le quali Andreas si scontra in pochi giorni. Anche qui, come nel romanzo di Roth, i miracoli sono minimi, quasi impercettibili, e proprio per questo più credibili: piccoli scarti del destino, deviazioni gentili che non salvano, ma accompagnano.

Il regista Giuseppe Amato è al contempo interprete di Andreas: si muovono insieme con esitazione, tentativi abortiti, di slanci frenati. È un uomo che vorrebbe redimersi ma non sa come, perché nessuno gli ha mai insegnato che la redenzione può essere anche incompleta. In lui convivono la purezza del desiderio e l’incapacità del gesto, la sete di ordine e il caos della carne. È santo non perché puro, ma perché vulnerabile; bevitore non perché colpevole, ma perché stanco.

In un mondo che pretende coerenza, Andreas ci ricorda che è già un atto spirituale restare fedeli al proprio tentativo, anche quando si fallisce. La sua morte non libera dal debito: lo dissolve. Non perché Andreas sia riuscito, ma perché finalmente qualcuno lo lascia andare.

L’oscillazione continua tra l’aspirazione alla santità e la ricaduta nell’umano, tra l’innocenza desiderata e la colpa ereditata. Il santo bevitore che abita la scena, Roth che lo trascrive, che si inscrive in un testo senza tempo, è un uomo che porta un debito come noi portiamo i nostri, tanto silenziosi, stanchi, quotidiani.

"Non ho una casa. Vivo sotto i ponti di questo fiume, ogni giorno uno diverso. Tuttavia, come ho già detto, sono un uomo d'onore anche se non ho un indirizzo."



Locandina:
da Joseph Roth
regia Giuseppe Amato
drammaturgia Chiara Benedetti e Giuseppe Amato
con Giuseppe Amato, Chiara Benedetti, Stefano Detassis, Christian Renzicchi e Candirù
scenografie Andrea Coppi
costumi Valentina Basiliana
organizzazione Cristina Pagliaro
produzione Ariateatro


[A cura di Margot Océane]
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