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Very Long Song Artist

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DJ Khalab: ‘La mia proiezione è la sintesi’
Viaggio nel mondo di un musicista ossessionato dal suono, tra elettronica, jazz e continente africano.
   08 Mar 2019   |     Redazione   |     Alessandro Bilotta   |     permalink   |      commenti
Il mio primo incontro con DJ Khalab (aka Raffaele Costantino) avviene all'ingresso di Santeria Social Club, il mio locale preferito a Milano, dove nel giro di qualche ora porterà sul palco il suo album “Black Noise 2084” con la formazione Khalab Trio, affiancato alla batteria da Sarathy Korwar e ai fiati da Tenderlonious. Sta chiacchierando con Damir Ivic, da anni sul podio delle firme musicali più autorevoli d'Italia. “Ciao, sono Alessandro di Poliradio.” Nel giro di qualche minuto entriamo tutti e tre in camerino e comincia l'intervista. All'inizio non riesco a non pensare alla qualità delle mie domande, vorrei riuscire a creare da subito un clima disteso in cui poter conversare liberamente. Lui è sereno, ha tanto da dire, e così mi facilita il compito. Ne esce un dialogo articolato, in cui si salta dal ridere ai massimi sistemi nel giro di un paio di frasi, in cui si parla di arte, di sociologia, di antropologia, andando a toccare diversi piani del mondo di Khalab, un mondo fatto di concetto, di studio, di sperimentazione, di apertura totale. E tanta, tanta, tanta musica.

Partiamo a grandi linee, ho in mente la tua storia a blocchi: arrivi a Roma, negozio di dischi, inizi a fare il dj, poi la radio. Ma tutta quella parte hai sempre voluto tenerla separata, anche nelle interviste. Quando nasce Khalab come idea di progetto a sé, e con quale visione?

Khalab è nato per proteggere innanzitutto da me stesso la figura dell'artista, per tenerla distante da quella del conduttore radiofonico, direttore artistico, consulente musicale, insomma da quello che per vivere si occupa di musica a 360 gradi. Ad un certo punto ho sentito la necessità di dedicarmi in maniera più verticale all'arte, di mettermi a fare l'artista. Scusa la presunzione con cui uso questo termine.

Figurati.

È proprio che mi serve come distinzione per fare delle cose che non abbiano un fine ultimo, non abbiano un obiettivo da raggiungere. Mi sono reso conto che quando ho a che fare con la musica nel senso artistico del termine devo approcciarla in questo modo, cioè chiudermi in studio e sperimentare, provare ragionare più a livello filosofico e teorico, che a livello pratico e accademico. Il progetto è nato nel momento in cui, per una serie di motivi psicologici, fisici, umani, anche relazionali, ho avuto la necessita di chiudermi, e stare un po' da solo in uno studio. Che poi in realtà è stato seminato in un percorso molto lungo, perché io già dieci anni facevo il resident di una serata a Roma, che si chiama Afrodisia, dove appunto decisi di farmi chiamare Khalab. Nessuno sapeva ufficialmente che ero io, se non quelli che poi venivano alle serate. Alle prime serate venivano 200 persone, poi hanno incominciato a venirne 800, poi 1000, 1200.

E Khalab ha iniziato ad avere una sua vita...

Sì, poi quando ho deciso di chiudermi in studio e sperimentare con le musiche che da sempre mi hanno appassionato, quindi Africa, jazz e musica elettronica, è nato quel suono li.

Il nome?

È un gioco di parole con la Calabria e il Nord Africa.

Hai un background da dj, da digger, insomma quell'approccio lì. Come sei arrivato a fare un live a tutti gli effetti? Come si è evoluto questo bisogno espressivo, fino a quello che farai stasera, addirittura con altri strumentisti?

È un evoluzione abbastanza naturale per chi si approccia alla professione del dj prima di tutto da appassionato di musica. Io non sono mai stato un animale da party, un party addicted. Io ho iniziato perché lavoravo in un negozio di dischi e avevo accesso a tante informazioni, studiavo tanto ed ho iniziato ad appassionarmi seriamente. Poi piano piano ho cominciato a fare il dj: prima come selezionatore di vinili, finché è diventata anche una professione. Mi sono reso conto che avevo la possibilità di valutare altri percorsi. Ho iniziato a suonare anche con Traktor, poi con Serato, poi con i CDJ, poi con le pennette, poi ho iniziato a usare il campionatore con le pennette, poi drum-machine con i vinili. Ho cominciato a mischiare le cose, e questa curiosità mi ha fatto capire, quando riascoltavo le registrazione dei miei set, che quello che stavo creando era musica. Non stavo semplicemente mettendo un disco dopo un altro.

Un'evoluzione naturale quindi.

Sì. Così ho iniziato a farlo in studio con i musicisti. Ho suonato con alcuni di loro, quelli seri dell'ambito: Bosso, Giovanni Guidi, Petrella, insomma i jazzisti italiani, quelli bravi. Proprio loro hanno iniziato a dirmi “Guarda che tu sei un musicista. Noi di solito suoniamo con i dj, loro mettono i dischi e noi suoniamo sopra. Invece tu con noi interagisci in chiave veramente musicale.” Questa cosa ha iniziato a farmici credere per davvero e ho iniziato a ragionare da musicista, ho cominciato a scrivere i pezzi, ad arrangiarli per altri musicisti. E ad un certo punto c'è stata un involuzione di questo ragionamento: ho smesso progressivamente di dire agli altri cosa fare, e con un attitudine tipica del jazz, che è il mio ambito, ho imparato a dar valore a quello che possono portare in studio e sul palco. In studio è più facile, perché loro suonano e fanno ciò che vogliono su delle macro linee guida e dopo tu in fase di editing decidi cosa salvare. Dal vivo invece questo diventa ancora più estremo e mi incuriosisce molto. Non sono sempre soddisfatto di quello che viene fuori, eh. Però quando sono soddisfatto sono molto soddisfatto. Perché non solo mi gratifica, mi sorprende. È l'unico modo per rimanere svegli.

Quindi ti attrae questo pensiero, che ogni performance sia unica?

Assolutamente. È il motivo per cui amo questo tipo di suono. Mi fa salire sul palco senza avere un'idea di cosa può succedere stasera. Ci sono delle cose che non sono sotto il mio controllo. Anche il modo che i vari musicisti hanno di reagire col pubblico è diverso, quindi possono cambiare molti elementi.

Oltre ai già conosciuti Clap!Clap! e Populous ci sono altri nomi italiani di spessore legati al concetto di world music che meritano più attenzione?

Cristiano è un genio che ad un certo punto è andato in fissa con certe cose e a modo suo le ha trasformate, in una maniera esplosiva, per come è lui di carattere. Quando fa le cose devono essere super catchy, deve funzionare tutto, mille cambi. Mentre invece Andrea, Populous, è più un “cacciatore di nuovo”. Va dietro ad un suono perché in quel momento gli piace, poi si stanca facilmente e va da un altra parte. È bravo, e riesce a fare sempre quello che vuole. Per quanto mi riguarda, il ragionamento è un po' concettuale, un po' più profondo, malato se vogliamo. Io ho una ricerca un po' più stralunata, con una produzione meno pulita, io non sono un “bravo produttore”.

Hai un altro approccio.

È un po' piu arty. Da questo punto di vista ci sono chiaramente altri artisti che mi piacciono, magari non tutti italiani ma ce ne sono tanti; come Rabih Beaini (Morphosis), che è per parte italiano. Lui ha quel tipo di visione li, che fa riferimento alle proprie origini, alla sua visione techno e scura della vita. Io sono molto più vicino a quell'ambito lì, a personaggi come Hieroglyphic Being, African Sciences (che poi sono quelli che hanno remixato il mio singolo estratto dall'album). Shackleton. In verità il fatto che utilizzi riferimenti tonali e armonici che arrivano dal jazz e dall'Africa, intendendola in senso ampio, non significa che io mi occupi di world music. Il mio ambito sonoro è quello, poi lo condisco con altri ingredienti. Un po' come nei djset, non riesco mai a fare due ore dello stesso suono, mi piace variare molto.

La mia domanda era appunto su progetti “malati di contaminazione”.

Ci vuole molta consapevolezza. Per quanto mi riguarda c'è anche un discorso di età, perché sono vent'anni che lo faccio. A volte “malato di contaminazione” può voler dire “mettere delle percussioni su una cassa". Ci sono artisti che lo stanno iniziando a fare bene, come Machweo, Go Dugong, Lorenzo BTW, però ognuno con un'idea diversa. Machweo è più jazzy, Lorenzo è più UK clubbing, mentre Go Dugong segue ricerche del momento, va in fissa con Napoli, poi con la Giamaica, poi con l'hip hop; non ha ancora trovato il suo suono di riferimento, sta sperimentando, si sta divertendo.

È interessante che utilizzi l'espressione “del momento”.

Non lo intendo con accezione negativa eh, ognuno può andare fuori di testa per qualcosa, e sperimentare con quello. L'importante è che ci provi, poi ad un certo punto cambierà. L'ha fatto Miles Davis, ha cambiato mille modi di fare jazz.

Sempre stando in Italia, hai avvertito una sorta di limite nella risposta del pubblico italiano, per cui si crea la classica dinamica del “devi prima diventare forte all'estero per essere riconosciuto qui”?

Il mio approccio è internazionale, ma non per presunzione. Khalab è stato subito rilasciato e distribuito a livello internazionale, perciò ho cominciato a suonare all'estero. Mi rendo conto che in Italia il percorso sia più complesso. Il lavoro di Khalab è molto meno pop di quello che può fare Cristiano o di quello che può fare Populous: molto meno catchy, non ci sono canzoni, non ci sono ritornelli, non ci sono i drop.

È mondo jazz.

Sì, tanto è vero che è un tipo di suono particolarmente apprezzato in Inghilterra perché lì su questo sono sul pezzo. L'Italia in questo momento si sta muovendo su altre dinamiche, che paradossalmente sono tornate indietro di vent'anni. Si è tornato al pop, mentre noi provavamo a combattere quest'idea mainstream della musica e dire con un attitudine da controcultura “Guardate che sotto c'è della roba che dovete assolutamente scoprire!”. Si vede anche che l'offerta su questa linea non ha avuto costanza, così la gente ha detto “Va bè senti, io torno ad ascoltarmi le canzoni, questa roba qui non mi da niente di nuovo”.

Qual è il gap che non permette un approccio più educato da parte del pubblico? C'è una responsabilità anche da parte degli addetti ai lavori?

Dal punto di vista degli addetti ai lavori credo ci sia una resa, di fronte al fatto che se vogliono avere a che fare con la musica lo devono fare ad un certo livello e per forza di cose ad un certo punto devono strizzare l'occhio al pop, altrimenti non scrivi per le grosse riviste e non fai i grandi programmi per i grandi network. Del resto partiamo dal fatto che siamo un Paese figlio di una determinata tradizione. E poi non siamo un paese contaminato; mentre invece tra vent'anni, i ragazzi di vent'anni, di cui il 30% avrà origini caraibiche o africane, porteranno in dote un altro tipo di bagaglio culturale, che si mischierà con il nostro. Come è successo in Inghilterra 50 anni fa, o in Francia.

Sulla pagina di Khalab ho letto “Interessi: Afrofuturism”. Parlando del disco, io l'ho sentito proprio consacrato a quell'idea. Ti piace l'idea di essere portatore di un immaginario culturale così ampio?

Io mi sento appartenere a questo movimento nel senso che ho una chiara e netta visione, come tutti quelli che vi aderiscono, di un mondo assolutamente afrocentrico nel nostro futuro prossimo. Lo dico in chiave anche distopica, non vedo solo fiori, tamburi e gente che balla. Però lo vediamo, le persone si spostano da sempre. I primi uomini sono nati in Africa, in Etiopia, poi si sono spostati e hanno dato vita a quella varietà umana che noi conosciamo oggi. I secondi uomini, come schiavi, si sono spostati in altri continenti, erano sempre africani che hanno dato vita ad altre mille sottoculture. I terzi uomini, gli africani di oggi si spostano ancora e daranno nuova vita. Questi passaggi sommandosi tra loro portano ad un mondo sempre più nero.

Da come la metti il mondo è sempre stato afrocentrico.

Lo dico da un punto di vista centripeto, più che centrifugo. L'Africa sarà sempre più proiettata nel resto del mondo e tra cent'anni saremo molto più africani/cinesi che occidentali/orientali.

E le grandi città saranno per la maggior parte in Africa.

Appunto. L'Africa sta rappresentano un enorme bacino creativo e culturale. Anche in fatto di investimenti, anche quelli meno sani, che in Africa ci sono da sempre e che in questo momento stanno arrivando dalla Cina, dove ci sono tanti soldi. 50 anni fa noi stavamo in Italia come oggi stanno in Africa. Tra 50-60 anni non so cosa succederà, so che le dinamiche sociologiche che riguardano questo continente saranno centrali, soprattutto per noi Europei. Per non parlare degli Stati Uniti dove questo processo è già in atto da tempo.

Perché "2084"?

“Black Noise 2084” celebra una ricorrenza, con una data ipotetica: sarebbe la ricorrenza dei cento anni dell'abbattimento della schiavitù. Che in realtà non è mai finita.

Perchè la traccia con Clap! Clap! si chiama “Cannavaro”?

Perché lui è un cretino! Io non riesco a resistere alle stronzate di Cristiano. Ho un debole per lui che mi manda i messaggi. Ti leggo l'ultimo che mi ha mandato, si è firmato... “Padre Pioneer”. Lui si firma sempre così: Bruno Vestax, Martin Burger King, ...

...Digi G'Alessio.

Lui ha queste genialate qua, sono delle costanti. Quando stavamo lavorando a quel pezzo, che io avevo chiamato nella versione originale“Carnival”, abbiamo fatto delle cose in studio, gli ho mandato quello che avevo che avevo finito, lui mi ha rimandato un'altra parte di lavoro e aveva cambiato il nome del progetto. L'ha fatto per giocare perché sa che io rido. Alla fine l'ho tenuto per fargli uno scherzo, lui c'è rimasto! Mi piace anche l'idea di ragionare sul non-sense.

Costringe chi ascolta ad entrare di più nel pezzo. Un'ultima domanda, più tecnica: se dovessi spiegare ad un appassionato che ti segue cosa fai tecnicamente sul palco?

Ho due musicisti, di cui un batterista al quale mando un segnale di click, con il quale lui va sempre a tempo con quello che faccio io. Poi ho dei segnali midi che vanno a dei synth, con questi sviluppo le frequenze basse e le sequenze melodiche. Mando una sequenza midi al synth che le elabora in base a come io lo muovo. Poi ho una serie di clip audio che mando da Ableton Live, che sono i campioni del disco: la chitarra, le voci, il Fender... Faccio un arrangiamento in tempo reale, un po' come se fosse un remix, quindi non si sente quasi mai la traccia originale. Se voglio far suonare la traccia vera e propria devo farlo senza gli strumenti dal vivo. I pezzi che improvviso, che sono circa 10 su 12, sono tutti fatti con le tracce separate, più una 808, un Electribe analogico e un Kaoss Pad (per filtrare tutto quanto, per dare segnali ai musicisti, oppure in momenti più free per fare noise ed entrare in un'atmosfera più sperimentale. È molto intuitivo e soprattutto non tira fuori note precise e quindi in quei momenti non rischio di andare fuori tonica). Diciamo che non c'è un canovaccio da seguire. Nella maggior parte dei pezzi se sbaglio nessuno se ne accorge, idem per gli altri musicisti.

A inizio intervista hai usato l'espressione “proteggere da me”. È uno stato d'animo del processo artistico che conosco bene. Dopo l'uscita di “Black Noise 2084” riesci a ragionare già su un prossimo lavoro o senti il bisogno di “disintossicarti” dalla clausura del lavoro in studio?

Il mio lavoro è sul suono, io non scrivo canzoni, per cui in realtà sto già lavorando mentalmente al secondo e al terzo disco. Uno è un beat-tape, fatto di puro suono, e l'altro è un album che ho pre-registrato in Mauritania, al confine con il Mali, con una tribù tuareg. In questo caso la sfida sarà appunto trasferire nel mondo di Khalab il suono dei tuareg del deserto, che suonano con le chitarre fatte con i cavi rubati dai freni delle moto. Immaginati Black Noise che suona rock nel deserto.

Il compimento di tutto.

Capito? E poi da lì so già dove dovrò andare. L'idea è quelle della sintesi: voglio provare a sintetizzare sempre di più fino al momento in cui farò un disco fatto solo con una cassa della 808.

E sarebbe la tua visione finale?

Sì, il manifesto. Un'opera d'arte concettuale, come la “Merda d'artista”, che la vendi a centomila euro. La mia proiezione è la sintesi, un suono molto cupo, compatto. Non so come ci arriverò, perché ho sempre tanti stimoli e devo filtrarli, modellarli, farli diventare il mio suono. L'ho fatto nel disco con Baba Sissoko, poi nell'Ep con Black Acre, che è molto “carnevale”, un po' come le cose di Cristiano (del resto abbiamo iniziato assieme). E poi l'ho fatto ancora con Black Noise. È un percorso. Se li senti uno dopo l'altro ti accorgi che il filo è perfetto, è come se fosse una fascia molto larga che pian piano si stringe.
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