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New Urban Housing
Alla scoperta dell'abitare condiviso in Europa
   29 Nov 2018   |     Redazione   |     Sara Zanardini   |     permalink   |      commenti
Chi non è mai stato affascinato, o almeno incuriosito, sentendo parlare di vita nelle Comuni?
Vivere condividendo spazi e proprietà con persone che non sono né parenti né congiunti, ma solo pari. Eppure, spesso tutto ciò sembra rimandare ad un mondo distante, un esperimento del passato.
Oggi si parla di Housing sociale. Molto più di un lontano ricordo ma un progetto urbano, un nuovo modo di pensare gli spazi abbracciando la contemporaneità: per questa ragione ho incontrato Stefano Guidarini, professore associato presso il Dipartimento di Architettura e studi Urbani del Politecnico di Milano, insegnante di Composizione architettonica nella Scuola di Architettura Urbanistica Ingegneria delle Costruzioni, e fondatore del Master universitario “Housing sociale e collaborativo”; un percorso di studi che nasce nel 2011 in seguito all’esigenza, di riunire in un’unica figura professionale le diverse competenze necessarie ad affrontare la complessità dell’housing sociale. Non solo la progettazione architettonica e urbana, quindi, ma anche il design dei servizi, la gestione sociale e le competenze finanziarie necessarie per redigere un business-plan.

Ma che cos’è un Housing sociale? Locuzione derivante da Social Housing, identifica un progetto residenziale in cui oltre a soddisfare le esigenze abitative si creano spazi di condivisione. La futura comunità di abitanti viene coinvolta nel corso della progettazione di modo che il risultato sia il più possibile vicino alle esigenze della collettività. Nell’ottica di un vivere condiviso l’architetto vede quindi cambiare il suo ruolo; il Prof. Guidarini ci spiega come il ruolo dell’architetto dovrebbe essere, in tutti i casi, meno “autoriale” e più attento alla realtà. Il progettista deve accettare il fatto che gli edifici, una volta finiti, hanno una loro vita al di fuori del suo controllo. Un po’ come i figli che crescono e che prendono una loro strada. Gli edifici non sono di proprietà del progettista, non sono un’”opera d’arte” intoccabile. Gli edifici si trasformano, il loro uso cambia nel corso del tempo. Il ruolo del progettista esce molto rafforzato anche nei processi di partecipazione. Non è assolutamente vero che il progetto viene fatto dagli abitanti, al contrario il progetto lo fa sempre l’architetto, ma con un ruolo più consapevole e più propenso all’ascolto.

Guidarini ha appena pubblicato “New Urban Housing-L’abitare condiviso in Europa”, edito per Skira, mentre nel 2017 uscì con “Precisazioni sull’housing sociale in Italia”.

Perché nasce questo libro? Lo considera un’integrazione o un proseguo a “precisazioni sull’housing sociale in Italia” uscito nel 2017?

Anche se li ho iniziati più o meno contemporaneamente, sono due libri diversi: Precisazioni guarda all’Italia, ed è una sorta di pamphlet che vuole mettere in chiaro alcuni fondamenti dell’HS (in realtà è servito soprattutto a me per capire alcune cose …), mentre New Urban Housing guarda all’Europa e, sebbene sia concentrato su alcuni casi di Zurigo, ha un respiro più generale. Il libro nasce da una mia esigenza di studiare le origini urbane dell’abitare sociale e di trasmettere un punto di vista contemporaneo su diversi temi attuali quali la flessibilità, la tipologia, il linguaggio architettonico, la partecipazione, il ruolo dell’architetto, il concetto di comunità, l’abitare condiviso, il progetto urbano.

Nel libro ripercorre quelli che sono stati i diversi modi di abitare nella società degli ultimi due secoli, fino ad arrivare alle esperienze moderne dell’abitare condiviso. La vede come un’evoluzione naturale ed inevitabile della nostra società?

L’abitare condiviso è una delle possibili soluzioni per risolvere alcuni problemi delle città e della società, ma non può certo essere l’unica, né può essere una soluzione obbligata (altrimenti si torna alle kommunalka sovietiche o alle cage-houses di Hong-Kong). Non tutti sono “tagliati” per questo tipo di vita. Dev’essere una scelta libera. In Italia credo che resterà un fenomeno di nicchia nei grandi centri urbani anche se, come ha notato Johnny Dotti in una delle presentazioni del libro, in Italia abbiamo una lunga e preziosa tradizione contadina della famiglia patriarcale, che contempla diverse forme di abitare condiviso e collaborativo, una ricchezza tutta italiana che dovrebbe insegnarci molto.

Le esperienze moderne di housing sociale che racconta nel libro sono state realizzate da cooperative di abitanti di Zurigo. Potrebbe descrivere in poche parole i progetti nati in Svizzera? E spiegarci perché nel suo libro li introduce come un’utopia realizzata? in che cosa, a suo parere, un progetto del genere rappresenta o rappresentava una visione utopica del vivere civile?

Il libro racconta storie di persone che hanno costituito delle cooperative di abitanti che hanno deciso di vivere in edifici urbani – in affitto - in un modo molto diverso rispetto al tradizionale egoismo condominiale. Sono persone che all’inizio erano degli squatter che occupavano le fabbriche dismesse della Svizzera tedesca, in piena crisi economica negli anni ’90. La costituzione di queste cooperative trae origine da un’idea di vita descritta dal filosofo anarchico Hans Widmer nel libro bolo’bolo (1983), che descrive un nuovo tipo di società utopica. In seguito, essendo egli tra i promotori della cooperativa che ha realizzato i primi interventi basati sugli stessi principi di vita, lui stesso ha definito il suo libro una “pragmatopia”, proprio in quanto “utopia realizzata” che è una sorta di ossimoro.

Le idee di “un nuovo modello abitativo” sembrano sempre arrivare dall’esterno, dai paesi del nord Europa nello specifico (sto pensando al cohousing soprattutto). Crede che queste idee possano realmente attecchire in un paese come il nostro? Qual è la strada da percorrere per arrivare a pensare a un “presente condiviso”?

Come ho già detto prima, in Italia abbiamo una tradizione importante di vita comunitaria, legata non solo alla famiglia, ma anche all’abitare collaborativo dei piccoli centri urbani. Tuttavia, questa è una tradizione difficile da esportare nelle grandi città, a parte i casi ormai quasi estinti delle case operaie di ringhiera (i cui principi comunitari si tenta oggi di replicare). Teniamo presente anche che il nostro senso civico è tradizionalmente molto diverso da quello dei popoli del nord Europa (Indro Montanelli sosteneva che il nostro senso civico è tra i più arretrati del mondo occidentale). Però le esigenze contemporanee, la società sempre più multi-etnica, un nuovo concetto del possesso a favore dell’accesso all’uso e le esigenze di abitare temporaneo (per lavoro, per studio o per altri motivi) potrebbero costituire un forte impulso a questo “presente condiviso”.

Ammetto che quando si parla di vita e spazi condivisi il mio cuore corre sempre verso un’immagine un po’ romanza della comune. Dalla comune di Parigi a quella di Christiana, per secoli il concetto del vivere insieme è sempre stato associato a ideologie politiche ma soprattutto ad un desiderio di evasione dalla società e di opposizione alla borghesia; crede che ci sia qualche affinità, anche se marginale, con questo spirito?

Ho scelto di descrivere questi casi svizzeri proprio perché sono il contrario dei casi che lei cita: sono promossi da anarchici (quindi liberi da ideologie politiche) e non vogliono evadere ma al contrario vogliono stare profondamente dentro la società, anche se in una posizione critica verso la società borghese e il sistema capitalista. Le cooperative di cui parlo sono nate da libere associazioni di persone che condividono alcuni ideali e valori di vita, all’insegna del reciproco rispetto, della partecipazione, della diversità come fonte di ricchezza sociale, dell’uguaglianza, dell’apertura verso il mondo, della solidarietà, del volontariato e della sostenibilità ambientale. Sono persone che non intendono vivere a spese di altre persone, a spese della natura o delle generazioni future.

E dopo questa semplice descrizione di ciò che si sta cercando di costruire a Zurigo, direi che non ci resta altro da fare se non correre a vedere coi nostri occhi che cos'è questa pragmatopia, ma non prima di aver letto il libro:
skira.net/books/new-urban-housing
architettura, social housing