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FARE POST-PUNK NEL 2018: INTERVISTA AGLI OUGHT
Abbiamo scambiato due parole con la band canadese
   22 Nov 2018   |     Redazione   |     Davide Quercia   |     permalink   |      commenti
Lo scorso 11 novembre abbiamo intervistato gli Ought in occasione della data milanese del loro tour europeo, al circolo Ohibò. Ecco cosa ci siamo detti:

POLI.RADIOSun Coming Down è stato pubblicato nel 2015, quindi avete avuto molto tempo per lavorare al vostro nuovo album, Room Inside the World. È stato difficile pensare a nuove canzoni da scrivere?

Matt – Abbiamo impiegato cinque mesi per scrivere e registrare il nuovo album, che per noi è un tempo lungo. Poi è passato circa un anno prima che venisse pubblicato e abbiamo suonato un po’ ma non di frequente. Direi che da quando il disco è uscito in poi siamo stati abbastanza occupati.

Tim D. – È buffo, ci viene chiesto spesso “Cosa avete fatto dal 2015 fino ad oggi?”. Siamo stati in tour, SCD ci ha tenuti occupati per un anno e mezzo, poi abbiamo iniziato subito a scrivere il nuovo disco. Credo che abbiamo fatto una piccola pausa, poi abbiamo cominciato subito a scriverlo.

POLI.RADIO – Quindi non c’è stata nessuna interruzione tra i due dischi?

Tim D. – No, ci siamo fermati più o meno per sei mesi solo dopo aver finito RITW, poi abbiamo iniziato qualche tour di supporto e altre cose. Il cambio di etichetta ci ha preso un po’ di tempo, quindi il disco è uscito a febbraio e praticamente siamo stati in tour da allora.

POLI.RADIO
– Ci sembra che il nuovo album suoni un po’ più cupo del precedente. Cosa pensate che sia cambiato nella vostra carriera musicale, ci sono delle differenze di stile?

Matt – Certamente, penso che ci siano delle differenze. È interessante che vi sembri più cupo, per certi versi a me sembra più luminoso, ma capisco cosa intendi. Non so cosa renda il disco più o meno cupo, ma so che in questo terzo album abbiamo inserito le nostre influenze musicali in maniera più intenzionale. È un passo più vicino alla musica che ascoltiamo, mentre i primi due dischi erano in realtà più lontani dal nostro punto d’incontro, in termini di gusto musicale.

Tim K. – Penso che sia il ventaglio di suoni più ricco a renderlo più cupo. Dal punto di vista sonoro è più basso, più vario, ci sono strumenti come il basso, le chitarre, i violini. Lo capisco, c’è una gamma di suoni più estesa.

Tim D. – Forse è più malinconico, ecco.

POLI.RADIO – Leggendo su internet, il genere a cui viene più spesso associata la vostra musica è il post-punk. Pensate che sia corretto chiamarla così o è un po’ anacrosticio?

Ben – No, non mi da fastidio ci si riferisca alla nostra musica come “post-punk”. Ha un’accezione ampia che proviene da diverse tradizioni musicali e quando ci troviamo di fronte a un parente o un amico che ci chiede “Che cosa suonate?” non mi va di rispondergli “Rock and roll”, non mi va di rispondergli “Rock”, non mi va di rispondergli “Punk”, quindi “Post-punk” è la risposta più comprensibile. Penso che molte persone che ascoltano musica sanno cosa sia il post-punk e in questo modo evitiamo che la gente pensi che suoniamo come Elvis, o come i Beatles, o come una band distante da noi. Quindi no, non mi infastidisce.

POLI.RADIO – Pensate che la musica possa essere utilizzata come “arma” politica? Pensate che la vostra musica sia in qualche maniera politica?

Tim D. – La parola “arma” è curiosa, non mi convince. Per me esiste un’efficacia politica. Quando penso alla politica nella musica, credo che funzioni a livello di consapevolezza, anche se non credo ci sia una regola. Una cosa sulla quale ritorno spesso quando parlo della nostra musica e del nostro rapporto con la politica è che vivere a Montreal quando abbiamo formato la band ci ha permesso di avere uno zeitgeist e una coscienza collettiva in misura maggiore rispetto ad altri posti. D'altra parte, specialmente quando abbiamo iniziato, parlavamo solo alla nostra comunità, inoltre esiste un aspetto profondo di chi siamo come individui. Pensare a tutte queste cose ci impegna molto e personalmente come scrittore dei testi credo che questo genere di discorso politico stia cominciando ad affiorare dai miei testi. Ma credo di non essere d’accordo con l’idea di “arma” politica.

Ben – Se lo intendi come l’essere in grado di utilizzare [la musica] come arma per il cambiamento, come strumento, trovo che sia un concetto vicino a quello che ho io, qundi capisco cosa intendi, è attivismo. Condivido il concetto di mettere in atto un cambiamento politico attraverso la musica, ci credo fermamente e credo esistano numerosi esempi. I Clash sono un buon esempio, chiamarono un loro disco Sandinista! e molte persone nemmeno sapevano cosa fossero i sandinisti. Quindi gente che non si era mai presa il tempo di cercare cosa volesse dire lo fece e ci fu un sostegno importante verso i sandinisti. È solo un esempio ma credo serva a capire; c’è più potenza emotiva quando la musica viene utilizzata come protesta, per dare un messaggio o anche solo mette in condizione di poter cantare delle canzoni insieme.

Tim K. – Sì, ci sono un sacco di modi diversi in cui la musica può essere politica, sia figurativamente che dal punto di vista sonoro. Può cambiare il modo in cui qualcuno sente o vede il mondo, o fare riferimento ad un movimento o ad un luogo specifico, o parlare un maniera specifica di un’idea. Negli Stati Uniti oggi quasi tutto ciò che si sente o si vede è politico e viene comunicato come una tendenza. Le persone hanno il desiderio di concepire della musica e vogliono sentire a cosa tengono le altre persone. Qualcosa di politico può non essere politico in generale, come la musica pop, che è politica per un secondo.

POLI.RADIO – Grazie ragazzi, un ultima domanda: avete qualche suggerimento musicale, qualcosa che è uscito recentemente o che state ascoltando molto in questi giorni?

Tim K. – Sto ascoltando molto Noname, penso sia davvero brava.

Matt – Io sto ascoltando molto Sara Davachi ultimemente.

Ben – Ho scoperto recentemente questa etichetta di Bristol che pubblica elettronica molto cupa. Non so nulla su di loro tranne che sono di Firenze e non avevo mai ascoltato nulla di italiano che suonava così simile alla dubstep. Li ho inseriti nella playlist che suona prima del concerto perhè ho pensato fosse divertente mettere qualcosa di italiano. Il singolo si chiama Why Don’t You ed è un po’ jazz. Un’altra canzone si chiama Ego.
circolo ohibo, intervista, musica live, ought, postpunk