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Very Long Song Artist

Very Long Song Title

Wish You Were Here
Il Teatro Gaber celebra i 50 anni dall'uscita
   02 Nov 2025   |     Redazione   |     Jacopo Da Re   |     permalink   |      commenti
Il 5 giugno 1975 era un giovedì. La nuvolosa primavera inglese era ormai agli sgoccioli. Quel giorno, per la prima volta nella storia del Regno Unito, i sudditi di Sua Maestà si recavano alle urne per un referendum nazionale. Il quesito chiedeva se il paese dovesse rimanere o meno all’interno della Comunità Economica Europea. Probabilmente ignaro di tutto quanto detto finora, un uomo si aggirava per le strade della City of Westminster con l’andamento barcollante di chi aveva passato la notte a studiare le forme di qualche bottiglia di bourbon. L’uomo era calvo, sovrappeso, privo di sopracciglia, vestito con una camicia bianca a maniche corte e stringeva nella mano un sacchetto di plastica. Dopo molte ore di vagabondaggio, ormai nel pomeriggio, mise il pollice su un campanello e, dopo alcune febbrili scampanellate, si fece aprire. Dietro quella porta si trovavano gli EMI Studios, situati in Abbey Road, Londra; nello Studio 3 i Pink Floyd stavano ultimando il mixaggio di "Shine On You Crazy Diamond", un brano in nove parti destinato a costituire la spina dorsale del loro nono album, "Wish You Were Here". Per comprendere come i Pink Floyd arrivarono a "Wish You Were Here", quali furono le ragioni dietro il concept album e, soprattutto, chi fosse l’uomo senza sopracciglia e cosa ci facesse all’ingresso degli Abbey Road Studios, è necessario fare qualche passo indietro.

Le sessioni di registrazione erano iniziate il 13 gennaio 1975, rivelandosi fin da subito un calvario di alienazione e disimpegno, con i membri Roger Waters, David Gilmour, Richard Wright e Nick Mason che giungevano in studio con orari diversi, preferendo talvolta il tennis alla composizione, in un clima di totale paralisi creativa. Il successo del precedente album, "The Dark Side of the Moon", aveva trasformato una band underground in un fenomeno globale, e i molti cambiamenti che ne conseguirono contribuirono ad aumentare la pressione interna. In primo luogo, i Pink Floyd avevano scelto di affiancare alla Harvest Records, per la distribuzione europea, anche la Columbia Records, al fine di migliorare il proprio collocamento sul mercato nordamericano. Ben presto, tuttavia, fu chiaro che la CBS, casa madre della Columbia, fosse ben più esigente di quanto inizialmente preventivato. Il bisogno di fuga dalle nuove responsabilità contrattuali spinse la band a concepire il progetto poi abortito di "Household Objects". Si trattava di un tentativo di comporre un intero album utilizzando esclusivamente suoni prodotti da oggetti domestici. Queste escursioni sperimentali e avanguardistiche non videro mai la luce in forma organica, ma servirono da studio per la caratterizzazione sonora di "Wish You Were Here". A titolo d’esempio, il suono dei calici di vetro, ottenuto sfregandone il bordo, trovò posto nell’introduzione di "Shine On You Crazy Diamond". Era un’idea che aveva già avuto parziale compimento in "Alan’s Psychedelic Breakfast" (tratto da "Atom Heart Mother") e, prima ancora, in "Several Species of Small Furry Animals Gathered Together in a Cave and Grooving with a Pict" ("Ummagumma"), idee che affondavano le proprie radici in "Revolution 9" dei Beatles ("White Album") e, ancor più a monte, nella musica concreta di Pierre Schaeffer. La ricerca di nuove sonorità era anche un tentativo di supplire all’assenza di Alan Parsons, l’ingegnere del suono che aveva tessuto i nastri di "The Dark Side of the Moon" e la cui maestria gli era valsa, nel 1973, la prima di molte nomination ai Grammy Awards come “Best Engineered Recording”. Sull’onda di quel successo, Parsons non rinnovò la disponibilità per il nono album dei Pink Floyd, preferendo dedicarsi ad altri progetti.

Già da tempo erano emersi dissidi interni tra i componenti del gruppo, reduci da due anni di tour ininterrotti. Gli stessi contrasti sarebbero poi risultati prodromici all’allontanamento di Waters dopo "The Wall" e "The Final Cut". Fu in questo momento di attrito, incomunicabilità e stasi compositiva che venne istintivo ripensare agli anni trascorsi al fianco di Roger Barrett, detto Syd. Era stato il fondatore e il frontman della band nei primi anni, all’epoca delle esibizioni nei locali di Londra come l’UFO e il Marquee, mentre Waters, Wright e Mason frequentavano ancora la facoltà di architettura al Politecnico di Londra (oggi Università di Westminster). Era stato Barrett a imprimere il primo indirizzo blues e la successiva svolta psichedelica alla band, e fu sempre lui, in un secondo momento, a integrare Gilmour nell’organico. Norman Smith, produttore dei primi dischi dei Pink Floyd, era solito accostarne la creatività a quella di John Lennon. Fino al 1965 Smith era stato ingegnere del suono per tutti gli album dei Beatles e successivamente era stato promosso dalla EMI al ruolo di produttore. Non è difficile immaginare che Syd Barrett, Norman Smith e John Lennon si siano incrociati nei corridoi degli Abbey Road Studios. Nel 1967 i Pink Floyd stavano avviando le registrazioni di "The Piper at the Gates of Dawn" nello Studio 3, mentre nello Studio 2 i Beatles stavano ultimando il mixaggio di "Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band". I nastri master dell’ottavo album dei Beatles vennero poi duplicati da un neoassunto Alan Parsons, appena diciassettenne. Eppure la scrittura prolifica ed estrosa di Barrett ebbe un prezzo. Era solito trovare ispirazione nell’uso di sostanze psichedeliche e allucinogene, tanto da impedirgli spesso di cantare o reggere la chitarra. In seguito a un definitivo crollo nervoso, Waters, Gilmour, Wright e Mason decisero di estrometterlo dal progetto creativo, vista l’impossibilità di Barrett di parteciparvi attivamente.

"Wish You Were Here" è figlio delle due facce della crisi che i Pink Floyd vissero tra il 1973 e il 1975: da un lato il senso di svuotamento e alienazione generato dall’oppressività dell’industria discografica, dall’altro i temi dell’assenza e della lontananza, incarnati dal ricordo sbiadito di Syd Barrett. Questa duplice identità trovò espressione visiva nella copertina ideata dallo studio grafico Hipgnosis, già autore delle cover di album per i Led Zeppelin, i Genesis e gli Emerson, Lake & Palmer, nonché di "The Dark Side of the Moon". Storm Thorgerson e Aubrey Powell concepirono l’immagine di due uomini d’affari che si stringono la mano, uno dei quali in fiamme: simbolo dell’ipocrisia e dell’apatia insite nei rapporti commerciali. Lo stuntman Ronnie Rondell fu realmente dato alle fiamme nel retro di un set dei Warner Bros. Studios di Hollywood. Le scelte di produzione virarono verso un suono elettronico più meccanico e disumanizzato, perfettamente funzionale alle tematiche dell’album. Gli effetti sonori implementati in "Welcome to the Machine" esprimono la claustrofobia del mondo industriale, e i sintetizzatori diventano l’argomentazione sonora della critica all’industria musicale. "Have a Cigar", invece, si rivolge al mondo discografico con caustica ironia tramite la celebre battuta “Oh by the way, which one’s Pink?”, ispirata da una domanda realmente posta da un dirigente. Roy Harper prestò la sua voce alla caricatura del produttore musicale protagonista del testo, accentuandone il tono sarcastico e satirico. "Wish You Were Here" è il cuore dell’album, rappresentando il senso di smarrimento emotivo generato dall’assenza di Barrett. L’introduzione, che emula una radio alla ricerca di una stazione sulla quale sintonizzarsi, venne registrata dall’autoradio di Gilmour. "Shine On You Crazy Diamond" si sviluppa come una suite di commiato al genio dell’amico Barrett. Il magnetico arpeggio iniziale di Gilmour costituì il punto di partenza da cui la band enucleò un’architettura musicale maestosa e al tempo stesso malinconica. Nei secondi finali, Wright inserì un motivo tratto da "See Emily Play", brano scritto da Barrett e uscito nel 1967 come singolo, il secondo nella storia dei Pink Floyd.

Nel pomeriggio del 5 giugno 1975, la visita dell’uomo senza sopracciglia gettò gli Abbey Road Studios nel surreale. L’uomo alla porta era un irriconoscibile Syd Barrett, ridotto ormai all’ombra di sé stesso. È difficile descrivere cosa possano aver provato i Pink Floyd in quei minuti. La penna di Peter Shaffer tratteggia una scena simile nel suo "Amadeus": Antonio Salieri, dopo aver trascinato Mozart sull’orlo della follia, assiste alla composizione del celebre "Requiem" interpretandolo come morte della propria innocenza e della propria creatività. Solo in un lampo di follia Mozart comprende di star componendo il proprio inno funebre. In un certo senso, la visita di Syd Barrett condivide qualche punto di contatto con l’opera di Shaffer. La sua apparizione, quella di un fantasma comparso durante l’esecuzione dell’elegia in suo tributo, sintetizzava con sagace crudeltà il paradosso fondativo di "Wish You Were Here". Era Barrett il “crazy diamond”. Eppure, quando varcò la soglia, nessuno lo riconobbe. Tutti lo considerarono un tecnico o un assistente. Fu David Gilmour il primo a riconoscerlo, sciogliendosi in pianto insieme a Roger Waters. Barrett, ignaro che la musica parlasse di lui, chiese di poter inserire una linea di chitarra. Quel pomeriggio, agli EMI Studios, i lavori terminarono anzitempo: vi era ancora il bisogno di metabolizzare quanto era accaduto. Alle 22:00 la Independent Television News diramò le prime proiezioni per i risultati del referendum, poi confermati l’indomani con lo spoglio delle schede: due terzi dei votanti si erano espressi a favore della permanenza del Regno Unito nella Comunità Economica Europea. Le sessioni di mixaggio di "Wish You Were Here" si protrassero per tutto il mese. Il 7 luglio dello stesso anno, David Gilmour sposò Virginia Hasenbein e la festa di nozze si tenne proprio agli Abbey Road Studios. "Wish You Were Here", nono album dei Pink Floyd, venne pubblicato il 12 settembre 1975.

Da allora è trascorso mezzo secolo. Il 28 ottobre 2025 il Teatro Lirico Giorgio Gaber ha festeggiato quest’anniversario con il ritorno sul palco del gruppo di giovani musicisti già protagonista delle celebrazioni per "The Dark Side of the Moon". Lo spettacolo, sotto la regia di Marco Rampoldi, ha proposto l’esecuzione integrale dell’album, accompagnata da una drammaturgia che intreccia musica, immagini e narrazione per restituire la dimensione umana e artistica di Syd Barrett. Matteo Pisu ne ha interpretato la figura, mentre i filmati originali dei brani e le traduzioni integrali dei testi hanno consentito al pubblico di cogliere pienamente il senso poetico e malinconico del lavoro. Accanto all’album, nella prima parte dello spettacolo, sono stati eseguiti alcuni brani del periodo precedente, scritti da Syd Barrett. Nella seconda parte si sono succedute le interpretazioni dei brani più celebri del repertorio floydiano.

Cinquanta anni sono tanti, ma sono anche il minimo necessario per iniziare a vedere un evento nella sua prospettiva storica. È un principio forse approssimativo, ma che ben incarna il concetto di “lunga durata”, enunciato da Marc Bloch nel suo libro "Apologia della Storia". Per "Wish You Were Here", cinquant’anni sono bastati a far decantare le polveri e mostrare la limpidezza dei suoi diamanti più preziosi.



Il Cast dello spettacolo al Gaber:

Marco Rampoldi - regia
Paola Ornati - drammaturgia

Pietro Bombardelli – voce
Antonio Mariano e Fabio Malavolta – chitarre
Simone Mauro Ghilardi – tastiere e voce
Luca Corbani – basso
Matteo Rampoldi – batteria
Filippo Cadringher – sassofoni
Sara Cosco, Lorenza Guatteri, Lara Mandelli – cori

e con Matteo Pisu nel ruolo di Syd

Davide Gamba e Andrea Lisco - luci
Matteo Faravelli e Federico Mollo - suono
Laura Liguori - costumi
Francesco Bardelli e Michele Laganà - assistenza tecnica
Marta Besozzi - assistente alla regia
Andrea Borgnino - service audio luci DB Sound


~ Jacopo Da Re
pink floyd, psichedelico, rock, teatro gaber