Al destino, si sa, piace scherzare. Spesso pare quasi che quando qualcosa accade, ci sia dietro un tempismo calcolato beffardamente. Chiaramente niente di tutto ciò è vero, ed è inutile scervellarsi per cercare simbolismi dietro ai fatti della vita, la verità è che certe cose prima o poi succedono e basta, e a noi resta il compito di commentarle e metabolizzare.
Certo, il fatto che Sly Stone e Brian Wilson abbiano terminato la loro esistenza terrena, a circa quarantotto ore l’uno dall’altro, non può che far pensare a uno scherzo del destino.
Entrambi sono stati innovatori geniali e, seppure in momenti e ambiti diversi, hanno contribuito a dare alla musica “popolare”, quella dignità che fino ad allora era appartenuta soltanto alla musica “colta”, rendendo centrale la forma d’arte, piuttosto che il prodotto commerciale e, peraltro, riscuotendo un enorme successo di pubblico, proprio con le loro opere più rivoluzionarie.
Le similitudini tra i due sono sorprendentemente numerose, a cominciare dal fatto che sia i Beach Boys che Sly & the Family Stone, sono band "familiari": Brian fonda i primi nel 1961, vicino a Los Angeles, insieme ai fratelli Carl e Dennis, al cugino Mike Love e all’amico comune Al Jardine. Tra inizio e metà anni ‘60 saranno uno dei più importanti gruppi statunitensi, una macchina da classifica con un motore turbo alimentato da singoli perfettamente pop, immaginario surf e armonie vocali uniche. Proprio queste ultime saranno l’asso nella manica dei Beach Boys, ciò che li distinguerà sempre da tutti gli altri e li terrà uniti e, forse, anche l’unica cosa che non cambierà mai nella loro storia assolutamente tormentata.
Sly & the Family Stone, invece, nascono in modo meno diretto, anni dopo, nel 1967. Sylvester Stewart, detto Sly, era un conduttore radiofonico di discreto successo a KSOL e, nel frattempo, portava avanti una carriera da produttore nella fiorente scena musicale di San Francisco. Si sarebbe riunito musicalmente ai suoi fratelli Freddie e Rose, soltanto anni dopo i loro esordi gospel d’infanzia, questa volta senza la terza sorella, Loretta, l’unica dei quattro a non far parte di Sly & The Family Stone.
Il lato più rivoluzionario della Family è stato certamente quello di essere un gruppo multietnico, in un’America profondamente divisa da un razzismo sistemico, al quale Sly aveva sempre contrapposto un’inclusione esasperata, dalle amicizie d’infanzia, ai dischi della “british invasion” passati in radio, fino alle produzioni per gruppi bianchi. Questa vicinanza a entrambi i mondi, tuttavia, non significava che Sly fosse insensibile alle ingiustizie subite dagli afroamericani. E lo darà a vedere.
Tanto Brian quanto Sly, pur avendo guidato due dei gruppi più riconoscibili e di successo di tutta la musica americana, saranno, tuttavia, maggiormente ricordati per i due lavori che furono maggiormente frutto del loro isolamento umano e artistico, entrambi realizzati all’alba di periodi di fortissima crisi personale: Pet Sounds del 1966 e There’s A Riot Goin’ On del 1971.
Pet Sounds nasce dopo che Brian Wilson, in seguito a un forte attacco di panico avvenuto su un volo per Houston, decide di smettere di seguire la band in tour. Tornato a casa, si concentra sulla scrittura dei nuovi brani che, anche a causa del crescente uso di stupefacenti, si rivelano molto più introspettivi e riflessivi rispetto al precedente repertorio dei Beach Boys.
Abbandonata la musica dal vivo, il tempo in più che riesce a dedicare alla composizione, si rivela fondamentale per la creazione di arrangiamenti sempre più complessi, che vengono tuttavia incapsulati nella forma-canzone con un’immediatezza sbalorditiva, quasi come se Brian riuscisse a sapere con certezza quale fosse l’accordo perfetto all’interno di ogni singola frase musicale di quelle composizioni. La stessa perfezione artistica si compie anche nei testi, in questo caso grazie al sodalizio con il paroliere Tony Asher, un pubblicitario che, con la sua comprensione della “tecnica” delle parole, riesce a dare una forma e un’espressione al sentimento puro che le canzoni dovevano trasmettere.
Una volta in studio di registrazione, Brian veste i panni del produttore, e dirige i turnisti della celeberrima “Wrecking Crew”, dando vita a delle session entrate nella leggenda. Per la fine del tour e il ritorno a casa del resto del gruppo, i brani sono sostanzialmente pronti per essere registrati e, seppur con qualche iniziale riserva, dovuta a un cambio di paradigma così radicale, vengono completati con le stupende armonie vocali del gruppo, che si incastrano alla perfezione con le architetture musicali di Brian.
Quella di Pet Sounds è stata una scommessa vinta da Brian Wilson che, anche se dovrà aspettare decenni per vederselo riconoscere dal grande pubblico, ha cambiato per sempre il modo di fare musica. Tant’è che lo stesso Paul McCartney, che con i Beatles e Rubber Soul aveva acceso la scintilla che avrebbe portato a Pet Sounds, ha più volte dichiarato il suo amore per quell’album, arrivando a indicare God Only Knows come sua canzone preferita in assoluto.
La svolta, per Sly, arriva invece nel 1970, quando, nel momento di maggior successo della band, comparsa anche a Woodstock, le tensioni interne, specialmente tra il bassista Larry Graham e lo stesso Sly, iniziano a farsi insostenibili. Le richieste di nuovo materiale diventano insistenti, specialmente visto lo stato di grazia che si percepisce dai singoli dell’album Stand!, tuttavia la produttività del gruppo è minata dal grandissimo abuso di droghe pesanti, soprattutto da parte del leader, in ulteriore aumento dopo il trasferimento a Los Angeles.
Sly Stone decide, così, di lavorare al nuovo album da solo, isolandosi il più possibile dal resto del mondo, e specialmente dai compagni di band.
Il risultato è There’s A Riot Goin’ On, un album che rompe ogni legame con tutto ciò che il gruppo aveva prodotto prima: nella solitudine del suo home studio, che alternava con il leggendario Record Plant, e in uno stato psico-fisico declinante, Sly riesce a far emergere delle perle funk purissime.
Le canzoni sembrano quasi avere vita propria, sono dense, oscure, e profondamente umane. La voce di Sly è un continuo alternarsi tra dei lamenti sussurrati, e i grandi inni soul a cui aveva abituato il pubblico. Secondo il resto dei musicisti della band, che come accaduto con i Beach Boys vengono richiamati nelle fasi finali per alcune sovraincisioni, gran parte di questo album è composta ed eseguita in solitudine, e ciò si riflette nel suono delle canzoni: a causa del continuo utilizzo dei nastri, su cui vengono aggiunti strati su strati di strumentali, i brani suonano opachi, quasi lo-fi, e anticipano di decenni certi sound DIY.
Sly, forse senza neanche rendersene conto, produce un’opera seminale in tutti i suoi aspetti: dal suono, con uno dei primissimi utilizzi di una “drum machine”, strumento che sarà fondamentale per la nascita del hip-hop, alle tematiche, che parlano all’america tanto di allora quanto di oggi, rispondendo, fin dal titolo, alla domanda che Marvin Gaye si era posto pochi mesi prima con un altro capolavoro, What’s Going On.
Sly Stone e Brian Wilson, pur essendo stati apparentemente lontani musicalmente, erano due facce della stessa medaglia. Hanno pagato un prezzo altissimo per il loro genio musicale, e avrebbero dovuto aspettare anni prima di vedersi riconosciuti i loro meriti. La consolazione è che entrambi, prima che se ne andassero, hanno ricevuto il giusto, enorme, affetto da parte di tutto il mondo.
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GENIUS DOES NOT LIKE COMPANY
Sly Stone e Brian Wilson sono scomparsi a distanza di poche ore l’uno dall’altro. Avevano entrambi ottantadue anni. Hanno cambiato per sempre la musica… in modo simile.