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Greta Gerwig tre volte
In tre città, per tre film
   07 Mar 2018   |     Start Rec   |     Luca Fontò   |     permalink   |      commenti
La prima volta che ho incontrato Greta Gerwig era il 10 settembre del 2011, ed ero a Venezia. Lei aveva da poco compiuto 28 anni, io 22. Per il bollettino quotidiano dei giornalisti, Carnage di Roman Polanski era il miglior film presentato alla Mostra di quell’anno, per il pubblico era stato Shame di McQueen, per me Killer Joe dell’esorcista William Friedkin – ma il Leone d’Oro lo vinse il Faust di Sokurov. La cerimonia di premiazione si svolse che era già buio: chi non si sporgeva dalla balaustrata per Michael Fassbender (che uscì dal teatro a firmare autografi dopo aver vinto la Coppa Volpi) lo faceva in attesa di intravedere George Clooney; poi se ne andarono tutti. E siccome il Lido deserto all’ultimo giorno è consuetudine del Festival, il Comune aveva messo a disposizione dei cittadini un coupon ritagliabile dal quotidiano locale per assistere gratuitamente alla proiezione del film di chiusura. Nonostante ciò, in sala eravamo venti. Il film si chiamava Damsels in distress e sarebbe arrivato nelle sale italiane con un anno di ritardo e il sottotitolo Ragazze allo sbando. Dirigeva Whit Stillman, candidato all’Oscar per la sceneggiatura del suo film d’esordio, uno che in effetti sa scrivere bene. Ma sul tappeto rosso gli occhi erano tutti per Analeigh Tipton e il suo girovita di quaranta centimetri scarsi – circonferenza e non diametro. La Tipton, nel film, interpreta Lily: una giovane matricola di un college americano che, spaesata, aggirandosi per il campus, si imbatte nelle tre volontarie di un club di sostegno agli universitari con tendenze suicide. Greta Gerwig è la boss di questo gruppetto: offre ciambelle, caffè e sedute terapeutiche più simili al chiacchiericcio che alla medicina – durante le quali si sente dire, da uno studente del college: «non ho gli occhi verdi: se avessi gli occhi verdi vedrei tutto verde» – e pare che né la madre né le maestre d’asilo gli abbiano mai insegnato i nomi dei colori, dandoli per assodati. Le diciannove persone presenti in sala con me si guardano attorno disorientate. Ma il nonsense non dovrebbe stupire: Damsels in distress arriva alla fine di quella che potremmo definire la “seconda fase” della carriera di Greta, dopo l’esordio in LOL (non quello con Demi Moore) e l’adesione al mumblecore – sottogenere dell’indie a metà tra il genere e la corrente – con il film Hannah takes the stairs, di cui risulta anche sceneggiatrice. Anche se il film, come tutti i mumblecore, una sceneggiatura non ce l’ha: il sottogenere si caratterizza per la quasi totale improvvisazione, i bassissimi costi di produzione, l’importanza dei singoli dialoghi al di sopra di tutta la trama della pellicola (macché pellicola, digitale) e soprattutto l’interesse per le storie dei twenty-something, i ragazzi che hanno dai venti ai trent’anni. Il sottogenere ha un sottogenere horror, il mumblegore, di cui Greta interpreta nel 2009 il titolo più noto, The house of the devil, che sancisce il quasi totale passaggio al cinema “vero”: Amici, amanti e… con Natalie Portman e Ashton Kutcher; il disastroso Arturo, con Russell Brand e Helen Mirren; e poi un altro disastro, To Rome with love di Woody Allen – con cui, ha dichiarato, non lavorerà mai più nel rispetto di Dylan Farrow.

La seconda volta che ho incontrato Greta Gerwig era il 23 novembre 2013. Lei aveva 30 anni, io 24, ed eravamo a Torino. A dirigere il Festival del Cinema c’era ancora Paolo Virzì, che aveva la bizzarra tradizione di entrare in sala, insieme agli ospiti, accompagnato da due trombettisti battenti. Greta aveva i capelli lunghi, io cominciavo a perderli, Virzì non so se li abbia mai avuti. Ancora non lo sapevo, ma stavo per guardare il film, fuori concorso, che avrebbe segnato la mia giovinezza. Frances Ha racconta la parte mumblecore della vita di Frances Halladay, il cui cognome, troppo lungo per la cassetta della posta, viene troncato dalle forbici alla prima sillaba. Frances ha 27 anni, vive con la sua migliore amica Sophie in un appartamento di Brooklyn, per pagare l’affitto insegna danza ad un gruppo di bambine ma, chiaramente, non è Billy Elliot: e ce l’ha dimostrato sul palco degli YouTube Music Awards, sulle note di Afterlife degli Arcade Fire, diretta da Spike Jonze. Sophie, un giorno, annuncia di andare a convivere con il fidanzato – e non potendo permettersi l’intero affitto da sola, Frances è costretta a traslocare: finirà per un breve periodo a Chinatown con due maschi che, a differenza sua, non annaspano; poi sarà costretta a tornare a Sacramento per le vacanze di Natale, dove ritrova i vecchi compagni di scuola e ne approfitta per fare la pulizia dei denti; poi si farà ospitare da conoscenti, persone intraviste una volta – finirà addirittura a Parigi, per un viaggio di due giorni talmente disastroso da essere speso quasi tutto nella stanza. Frances Ha è la fotografia della mia generazione – o, almeno, di quella parte che deve lavorare per pagarsi l’affitto: quella che impara l’arte senza avere talento, che ha studiato la cosa sbagliata, che a trent’anni si comporta come se ne avesse quindici e quando vuole offrire la cena il POS non riconosce la carta. Un anno per scrivere, un anno per girare. Girano e scrivono Greta stessa e Noah Baumbach, candidato all’Oscar per Il calamaro e la balena, che diventerà il suo compagno e con cui lei aveva già lavorato a Greenberg («la performance canora del mio ultimo film, Tutti i santi giorni», disse Virzì a Torino, «viene proprio da lì»). Tre anni dopo, Frances diventerà Mistress America, ribaltamento del personaggio – sempre interpretato da Greta – al di qua del successo, e non più al di là: mentore per un’altra matricola, Lola Kirke: ma questa volta l’arte in ballo non è la danza bensì la scrittura. Film sopra le righe, humor non apprezzato: e Frances rimane il maggior successo della coppia Gerwig-Baumbach, ma anche delle due singole carriere: 82 su Metacritic, 50.1K visualizzazioni su Letterboxd, uno dei dieci migliori film del 2013 secondo Indiwire.

La terza volta che ho incontrato Greta Gerwig, io giocavo a fare il giornalista e lei era diventata regista per davvero. Aveva di nuovo i capelli corti; i miei, ormai, un vago ricordo. Era il 7 gennaio di quest’anno: mancavano sette mesi perché lei compisse 35 anni, a me cinque per i 29. Dopo due settimane e due giorni, Greta sarebbe diventata la quinta donna nella Storia candidata all’Oscar per la migliore regia, per il suo primo film “e mezzo”, Lady Bird: antenato di Mistress America e genitore di Frances Ha, storia da cui ha inizio ogni storia: prima della Grande Mela, prima di affrontare il college, l’affitto da pagare, le file per saldare le bollette, le mezze ambizioni, i mezzi talenti: quando ancora, a casa, c’è una madre di cui non si vorrebbe essere figli, stretti in una cittadina da cui si vorrebbe scappare: spiazzante atto d’amore verso ciò che si odia visceralmente e che poi si finisce col rimpiangere. Checché ne scrivano i giornali, eccetto Sacramento, niente di autobiografico: «non ho mai avuto uno pseudonimo e non mi sono mai ribellata alle istituzioni, anzi: sono sempre stata molto diligente» racconta Greta alla conferenza stampa dei Golden Globes; Saoirse Ronan, accanto a lei, tiene in mano la statuetta come migliore attrice comedy. A Lady Bird è arrivato anche il premio più importante, quello al miglior film. Primo “e mezzo” perché un debutto dietro alla macchina da presa c’era già stato, esattamente dieci anni fa, ma insieme a Joe Swanberg, uno che al mumblecore ci crede ancora – mentre Greta si stava avvicinando all’Academy già con Jackie e Le donne della mia vita, e prestava la voce al nuovo film d’animazione di Wes Anderson. Lady Bird, candidato anche agli Oscar per il miglior film, la sceneggiatura originale ed entrambe le attrici, è uscito nelle nostre sale giovedì 1 marzo: 100% di recensioni positive su Rotten Tomatoes con un voto medio di 8,9 su 10 basato su 187 critiche – record strappato a Toy Story 2, che era fermo a 163. Ma «non potrei mai scrivere niente sulla Gerwig» dico a un mio collega, uno che pure gioca a fare il giornalista: «non sarei oggettivo. Comincerei a parlare di lei dicendo io. Mi farei influenzare dalle volte in cui l’ho vista. Sono talmente implicato che non saprei dire perché la sua candidatura all’Oscar sia così importante, a prescindere dal fatto che sia donna». Così, lo dice lui per me: «ché è il miglior esempio di “fare carriera” nel cinema».
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