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Very Long Song Artist

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Bonobo e altri animali fantastici
Racconto semiserio del live al Fabrique
   17 Mar 2017   |     Redazione   |     Davide Quercia   |     permalink   |      commenti
C'è una certa tendenza ultimamente, da parte di chi fa musica elettronica, a chiamarsi con nomi improbabili di altrettanto improbabili animali esotici. In Italia abbiamo il nostro Capibara, che per chi non lo sapesse è il roditore più grande del mondo (l’animale esotico, non il musicista), gli inglesi invece hanno il loro Bonobo. Che, a onor del vero, di questa nomenclatura tropicale è stato precursore o, se preferite, primate.
E non ci si pensa, ma Bonobo è da un po’ che gira rotelline e schiaccia bottoncini facendo muovere la testa più o meno a tempo alla gente, difatti il primo pensiero che passa per la testa quando lo si vede dal vivo è un “lo facevo più giovane” con quel misto di delusione e sorpresa, entrambe vergognosamente snob, di chi come me è nato nei gloriosi ’90s. L’impressione è inevitabilmente accentuata dall’età media del pubblico, numerosissimo, che affollava ogni centimetro del Fabrique. Non per sminuire la fama del caro Simon Green (aka Bonobo), ma l’esercizio preferito del pubblico in fila all’ingresso è giustificare il sold-out così rapido – i biglietti sono finiti settimane fa – di un concerto di musica giudicata, a quanto pare, non di semplice fruizione. Queste interessanti disquisizioni si articolano in due fasi: la prima si scatena appena dopo aver girato l’angolo da via Mecenate, quando l’espressione di iniziale, sadica soddisfazione nel vedere la fila per il ritiro del biglietto – mentre tu, il biglietto te lo sei scaricato sul telefono, perché non hai mica l’età di Bonobo, suvvia – si affievolisce pian piano mentre si percorre al contrario la fila per l’ingresso, cercandone l’inizio, arrivati al quale ci si abbandona ad una espressione di autentico sconforto: cazzo. Ma l’acme delle discussioni si raggiunge però all’interno della coda stessa, sospinto dai fumi di combustione delle più varie sostanze, i cui pungenti aromi uniti alle bancarelle traboccanti di magliette sul bordo del marciapiede offrono una buona approssimazione di un suq tunisino. Tralascio la narrazione di alcune singolari situazioni a cui assisto - compresa la ragazza che, non potendolo portare dentro il locale, trangugia un drink in pochi secondi (sposami) - perché intanto il concerto è cominciato e si sentono in sottofondo le basse frequenze di Kerala provenire dalla porta d’ingresso. Finalmente, entro.

Una buona abitudine che va affermandosi nei concerti di musica elettronica da un paio di anni a questa parte è quella di portare in tour un bel numero di musicisti. Sul palco, oltre ai già citati bottoncini e rotelline c’è spazio per batteria, tastiere, sax, bassi e chitarre. Per le parti vocali – non poche nell’ultimo album, Migration – c’è una combinazione non semplice delle lettere s, j, z, r, i, e, collaboratrice di lungo corso di Bonobo, di cui non ho evidentemente ancora imparato a fare lo spelling. L’impatto visivo è notevole, con i membri della band immersi nel fumo – come se non ce ne fosse abbastanza – e sullo sfondo i visuals ispirati all’artwork dell’album. Ma è con la musica che tutti le ipotesi sul sorprendente successo di Bonobo fatte in coda all’ingresso collassano su un’unica verità: la sua musica mette d’accordo tutti; chi lo ascolta unicamente per il piacere di ascoltare e chi più che altro per dare sfogo ad istinti primordiali. Istinti che per la verità la musica del buon vecchio Green riesce a svegliare in tutti i presenti. Perfino io metto da parte la proverbiale scopa nel culo – o, meglio, mi trovo costretto a farlo per assecondare i movimenti inconsulti dell’individuo dall’invidiabile massa tricologica che mi trovo di fronte, come in quei siparietti comici da tv di provincia che non fanno ridere – e comincio a scapocciare.

La scaletta è costruita in maniera pressoché perfetta, alternando i pezzi classici ai nuovi, quelli più d’atmosfera a quelli che smuovono il pubblico, performance soliste a esecuzioni corali.
Su tutti spiccano Cirrus e Kong, ma anche Ontario, traccia troppo sottovalutata tratta dall’ultimo album, esprime dal vivo tutto il suo potenziale. L’ora e mezza abbondante di concerto vola, lo sguardo fisso sul palco, le orecchie attente a captare ogni vibrazione. C’è anche tempo per un paio di pezzi di bis, mentre mi allontano furbescamente dal palco. Perché almeno la fila all’uscita me la risparmio, non me ne voglia Bonobo.

Davide Quercia
bonobo, concerti, fabrique, live